La tre giorni musicale e’ sold out e fuori dagli ingressi del parco i bagarini americani si sgolano per fare affari.
Le previsioni del tempo non sono proprio rassicuranti ma venerdi’ 17 (che in USA non porta sfortuna), con un cielo grigio che non promette niente di buono tocca ai Tortoise, portabandiera della scena musicale della citta’ dell’Illinois, inaugurare uno dei tre palchi del Pitchfork Festival 2009.
Quest’anno i creativi organizzatori della manifestazione hanno pensato per la prima giornata ( una sorta di pre-festival) di far decidere ai fans le scalette delle band e cosi’ John McEntire e compagni, con nostro sommo piacere, suonano tra le alter “TNT” e “Glass Museum”e ascoltare quest’ultima nel cuore di Chicago fa venire I brividi, l’esecuzione dei brani e’ perfetta. Una precisione che fa quasi paura.
Tra applaui scroscianti arrivano i tre Yo la Tengo e, tra un cavallo di battaglia e l’altro, rompono la regola inserendo in scaletta un paio di canzoni nuove, deliziose, per poi farci sorridere e ricordare un vivo recente passato con Tom Courtenay e Sugarcube.
Sono le 19.20 ed e’ il momento dell’attesissimo ritono dei Jesus Lizard, che la citta’ aspetta da una decade oramai, I suoni sono taglienti come sempre, in particolare la chitarra di Denison. Il pubblico esplode, dopotutto non sono diventati uno dei gruppi piu’importanti del post harcore a caso e il frontaman David Yow sembra rinvigorito da tale entusiasmo, e in 40 minuti di live salta, si sgola, sputa, si lancia tra la folla e da appuntamento ai concittadini per un nuovo live a fine novembre al Metro di Chicago.
L’arduo compito di concludere la prima giornata dopo il set infuocato dei Lizard e’ dei Built To Spill, che festeggiano il ventennale dalla formazione in quel di Boise, Idaho. Le loro chiatarre anni 90 la fanno da padrone per tutto il set, tra lunghe jam session, ballate come “Kikked in the Sun” e gran finale con “Carry the Zero” sinceramente oramai siamo tutti un po’ stanchi e allo stesso tempo ansisiosi che il vero festival cominci l’indomani.
(The Pains of Being Pure at Heart)
Sono le 16.20 e Final Fantasy (il canadese Owen Pallett) si presenta sul grande palco da solo con violino e tastiera e strega i piu’ di 40.000 presenti (tutti in religioso silenzio) con un set di rara bellezza e classe fatto di virtuosismi e suoni celestiali. Sbalorditiva la sua capacita’ di costruire loop e melodie creando con il solo violino la base strumentale delle sue canzoni. Owen stesso dichiara sul palco di essere spaventato e di non aver mai suonato un set cosi’ ambizioso ad un festival, ma il risultato e’ eccezionale e applauditissimo.
Dopo i giovani e divertenti Polnytail, arrivano , ancora da Brooklyn gli Yeasayer: una gran bella sorpresa, il loro rock pop sperimentale e’ qualcosa che non avevo ancora mai sentito, uno strano incrocio tra Duran Duran, Depeche Mode, con un pizzico di India tribale e di Radiohead. Il live e’ coinvolgente e proprio mentre suonano la loro “hit” “Sunrise” la pioggia decide di scendere fortissima sul pubblico in estasi, un momento bellissimo.
(Yeasayer)
Per fortuna I temporali estivi durano poco e dopo Wavves, Doom e Lindstrom e’ il turno di Beirut, aka Zach Condon, il giovane ma ormai consumato forndatore del progetto e’ molto atteso. Purtropo una band non all’altezza non riesce a rendere dal vivo la bellezza della sua musica, il batterista e’ fuori sincrono, il bassista pure, ma la voce di Zach riscalda e la sua presenza e’ magnetica. Fantastico il duetto di “Sunday Sun” con Final Fantasy al violino per tutta l’ultima parte del set.
(Beirut)
Sul palco principale fervono i preparativi per l’ultimo live della giornata, in sottofondo Human Nature di Michael Jackson (R.I P).
Ore 20.40. Sono pronti The National. Semplicemente un concerto grandsioso. La band e’ padrona del palco, e mentre snocciola canzoni su canzoni da Alligator e Boxer il frontman Matt Berninger (probabilmente ubriaco) cade, si rialza, urla e sussurra. La band, coposta da due chitarre, basso, batteria, violinista/polistrumentista e un trombettista, e’ mostruosa. Apoteosi le performance di Fake Empire e di Mr November con tanto di stage diving di Berninger (elegantissimo nel suo completo anche mentre si tuffa sul pubblico). Che meraviglia.
( The National)
Domenica 19, altre 18 band, dalle 13.00 si esibiscono Michael Columbia, The Mae Shi, Dianogah (non sapevo fossero ancora in giro!), Frightened Rabbit, I Blitzen Trapper da Portland, I Killer Whales, e I Women dal Canada che riscuotono un discreto successo con i loro suoni cacofonici e l’esecuzione della ormai quasi famosa “Black Rice” (ma quant’e’ dolce e bravo il chitarrista!). Sono le 16.15, e sembra finalmente Luglio, sole e caldo. Tra tanta bellezza e perfezione ecco che arriva il momento buuu del festival: The Thermals. Un live orrido, 4 cover in 40 minuti di set, dai Sonic Youth ai Nirvana, poi Breeders e gran finale con Basket Case dei Green Day. Le canzoni sono tutte uguali, l’unica traccia di dinamismo e’ nei saltelli della bassista e le cover sono la copia esatta delle originali. Non si intravede il motivo della loro presenza a questo festival. Non ci siamo. Totalmente fuori contesto.
Per fortuna dopo questo brutto momento, quasi come a volerci riconciliare con la bellezza del mondo, arrivano, da New York ovviamente, The Walkmen. Mi sbilancio senza timore, uno dei live migliori visti quest’anno. Con l’aiuto di un’orchestra di fiati di 7 elementi la band si esibisce in un concerto meraviglioso, coinvolgente ed emozionante. Gli straordinari musicisti che compongono il gruppo ( il battesista e il chirattsiat su tutti) creano un unico mix di suoni vintage, romantici, struggenti e potentissimi. Hamilton Leithauser ha una voce spaventosamente bella capace di acuti strabilianti e si capisce perche’ molti degli artisti presenti al festival sono al lato del palco ad applaudirlo. Memorabili le versioni di “Luisiana”, “In the New Year” e “The Rat”.
Mentre sul palco piccolo si esibiscono Vivian Girls, Mew e The Very Best, l’area principale e’ in fervida attesa per Grizzly Bear e The Flaming Lips.
I Grizzly Bear sono pronti a rispondere alle aspettative del numeriosissimo pubblico, e, nonostante alcuni problemi tecnici, ci riescono bene. Elegantissime le melodie e perfette le armonie delle loro voci, I quattro spaziano tra le atmosfere eteree di “Knife” a quelle piu’ pop di “Two Weeks”. Un bel concerto con quale hanno anche festeggiato il compleanno del batterista. Auguri!
(Grizzly Bear)
Ore 20.30, ci siamo, il gran finale e’ tutto per I Flaming Lips, e non poteva esserci conclusione migliore. La festa che contraddistingue i live della storica band di Oklahoma City coinvolge tutti in uno sforzo finale di entusiasmo e urla. Palloncini, coriandoli, il palco affollato come sempre da personaggi dai vari travestimenti, un’esplosione di gioia. E anche se Wayne Coyne parla e conversa col pubblico piu di quanto canta, lo perdoniamo intonando tutti insieme “Do you realize”.
(The Flaming Lips)
Ore 22.00, con grande ordine 50.000 persone defluiscono da parco e il Pitchfork Fesival e’ finito. Bravi agli organizzaori che hanno creato una macchina praticamente perfetta per il pubblico e per gli addetti ai lavori. Bravo il pubblico, rispettoso, entusiasta, curioso, sorridente. Bravi gli artisti, per le esibizioni ma anche per l’autentico senso di comunita’ e di collaborazione che hanno dimostrato presenziando a tutti i concerti dei propri colleghi.
Pronti per fare il biglietto per l’anno prossimo?